La mendace narrazione sulla finanza climatica di JPMorgan
Nel controverso panorama economico attuale, emerge con prepotenza il dibattito sulla cosiddetta finanza climatica, un settore in cui JPMorgan Chase, il colosso bancario di caratura mondiale, gioca un ruolo da protagonista indiscusso. Mentre una porzione cospicua della popolazione americana si trova a fronteggiare oneri energetici esorbitanti, esacerbati da politiche ambientali sempre più stringenti, l’istituto di credito guidato da Jamie Dimon prosegue pervicacemente a canalizzare ingenti capitali verso l’industria climatica. Le dichiarazioni del suo amministratore delegato, tese a derubricare tali operazioni a mero calcolo imprenditoriale, cozzano con una realtà fattuale ben più complessa e problematica. L’asserzione che il massiccio supporto a iniziative “verdi” sia dettato da logiche di profitto e non da un’adesione ideologica all’agenda ESG appare sempre più come un sofisma per mascherare operazioni la cui sostenibilità economica è, nella migliore delle ipotesi, dubbia e, nella peggiore, artificiosamente sostenuta.
Il dilemma della finanza climatica: profitto reale o artificio contabile?
Analizzando i dati divulgati dalla stessa JPMorgan, il quadro si fa più fosco. La banca si è impegnata a stanziare la cifra monumentale di un trilione di dollari, su un totale di due virgola cinque previsto entro il 2030, per quelle che definisce “soluzioni climatiche”. Un rapporto di 1,29 a 1 a favore del “green” rispetto ai combustibili fossili viene presentato come una scelta strategica vincente. Tuttavia, sorge spontanea una domanda cruciale: se tali investimenti fossero intrinsecamente remunerativi, perché necessiterebbero del massiccio e costante afflusso di sussidi statali, incentivi fiscali e di una martellante propaganda politica per rimanere a galla? Il sospetto, sempre più corroborato dai fatti, è che una parte significativa di questa finanza climatica rappresenti una bolla speculativa, un castello di carte eretto sul sacrificio della convenienza e dell’affidabilità energetica, i cui costi vengono scaricati sulla collettività. Le parole di Dimon, che etichetta l’impegno “verde” come un’attività “a scopo di lucro”, suonano come una beffa per milioni di consumatori e piccole imprese schiacciati da bollette insostenibili.
Le voci critiche sulla finanza climatica e le risposte evasive dell’establishment
Quando si tenta di scalfire questa narrativa ufficiale, le reazioni dell’establishment sono emblematiche. L’episodio che ha visto protagonista Nate Myers del CFACT durante l’assemblea degli azionisti ne è una prova lampante. Alla richiesta, del tutto legittima, di delucidazioni sul perché la banca non privilegi investimenti basati su criteri oggettivi quali il rendimento, la domanda di mercato e l’affidabilità, invece di inseguire utopie ecologiche, la risposta del vertice è stata un misto di irritazione e vaghezza. Questo atteggiamento elusivo non fa che alimentare il sospetto che la finanza climatica sia una cortina fumogena per celare un’agenda che poco ha a che fare con il benessere del pianeta e molto con gli interessi di una ristretta élite. Si assiste a un cortocircuito logico in cui gli stessi azionisti, teorici beneficiari dei profitti, iniziano a sconfessare le derive pseudo-ambientaliste, percependo i rischi di una strategia tanto ideologizzata quanto economicamente fragile.
L’eredità storica di JPMorgan e il vero scopo della finanza climatica
L’operato odierno di JPMorgan non può essere slegato dalla sua eredità storica. L’istituto porta il nome di quell’J.P. Morgan senior che, agli albori del XX secolo, fu uno degli architetti del “Money Trust”, un cartello finanziario che, insieme a figure come Rockefeller, manipolò l’economia americana per il proprio tornaconto. Il parallelismo tra allora e oggi è inquietante. Il modus operandi sembra non essere mutato: la socializzazione delle perdite e dei rischi, accollati alla cittadinanza tramite inflazione e costi energetici, e la privatizzazione di profitti generati non da un’autentica innovazione, ma da un’ideologia redditizia. La finanza climatica, in questa prospettiva, non è altro che l’ultima iterazione di un modello secolare, in cui la finanza si pone al servizio di un’agenda elitaria, ammantando di nobili intenti operazioni spregiudicate. A pagare il conto di questa colossale distopia ecologica, finanziata a colpi di trilioni, sono sempre gli stessi: i cittadini e le famiglie, sempre più distanti dai palazzi del potere finanziario.

Per approfondimenti:
- JPMorgan Chase’s Climate Score
Analisi indipendente che documenta come JPMorgan sia il primo finanziatore globale di combustibili fossili dal 2015, con $431 miliardi erogati a carbone, petrolio e gas dopo l’Accordo di Parigi, inclusi $40 miliardi solo nel 2023 durante l’anno più caldo mai registrato . - Senators accuse JPMorgan’s Jamie Dimon of backtracking on climate commitments
Dettagli sull’inchiesta del Senato USA che accusa la banca di aver ingannato investitori e pubblico ritirandosi dagli impegni climatici (come Climate Action 100+ ed Equator Principles), sostituendo obiettivi verificabili con metriche opache (“Energy Mix Target”) mentre continua a finanziare progetti fossili . - Environmental Sustainability
Pagina istituzionale di JPMorgan dove dichiara il target di $2.5 trilioni per iniziative climatiche e sostenibili entro il 2030, utile per confrontare le promesse “verdi” con i finanziamenti effettivi ai combustibili fossili documentati altrove . - JPMorgan Chase
Profilo critico che inquadra il ruolo storico della banca nell’establishment finanziario globale, includendo scandali come la cancellazione di 47 milioni di email (bloccando cause legali) e i legami con Jeffrey Epstein, utili per contestualizzare le accuse di opacità .