Il paradigma del Friend-shoring e il riassetto mediorientale
La recente iniziativa diplomatica statunitense in Medio Oriente trascende la mera spettacolarizzazione politica per manifestarsi quale applicazione pragmatica di un nuovo paradigma geoeconomico: il friend-shoring. Questa dottrina, lungi dall’essere un concetto astratto, rappresenta l’architrave di una strategia deliberata e tecnocratica, finalizzata a rimodellare le catene globali del valore attorno a un perno americano. In un’era segnata da una crescente frammentazione e da un palese scollamento degli ingranaggi della globalizzazione classica, Washington e i suoi alleati perseguono la costituzione di distretti strategici regionali. Il Medio Oriente, in questa visione, è eletto a piattaforma nevralgica per l’integrazione di filiere produttive, energetiche e logistiche, non più globali ma selettivamente accorciate, geograficamente concentrate e, soprattutto, ideologicamente compatibili. Organismi come il World Economic Forum (WEF) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) hanno ormai sdoganato la regionalizzazione come la risposta più razionale e auspicabile alle vulnerabilità palesate dalle supply chain estese e indifferenziate del passato, promuovendo un modello fondato sulla prossimità e sull’allineamento valoriale.
De-risking e la riconfigurazione globale tramite il Friend-shoring
Il concetto di friend-shoring, la cui paternità intellettuale è attribuita alla segretaria al Tesoro USA Janet Yellen e che viene attivamente propugnato in consessi internazionali quali FMI, OCSE e WEF, costituisce il corollario operativo della più ampia politica di “de-risking”. L’intento è inequivocabile: dislocare le produzioni e gli approvvigionamenti strategici all’interno di una cerchia di nazioni considerate “amiche”, erodendo così la dipendenza sistemica da attori geopolitici percepiti come ostili o inaffidabili, con la Cina in cima alla lista. Come emerso con chiarezza durante i dibattiti al Milken Institute, non assistiamo alla fine della globalizzazione, bensì a una sua profonda trasfigurazione. Il mondo si sta “ri-cablando” in blocchi regionali coesi e interoperabili, retti da normative condivise in ambiti cruciali come la sicurezza informatica, la governance dei dati e la protezione degli investimenti. Questo processo non è un’evoluzione spontanea del mercato, ma un disegno geopolitico preciso che mira a creare ecosistemi economici protetti, resilienti e funzionali agli interessi del blocco occidentale, ridefinendo le mappe del potere e del commercio su scala planetaria.
La posta in gioco del Friend-shoring: il futuro del Petrodollaro
Negli interstizi di questa grande riconfigurazione si annida la questione capitale della perennità del dollaro quale valuta di riserva globale. L’analisi di Jim Rickards, ex consigliere del Tesoro e figura chiave nella genesi del sistema petrodollaro nel 1974, getta una luce sinistra sulle manovre attuali. Secondo Rickards, l’attivismo americano in Arabia Saudita è finalizzato a edificare un “Petrodollaro 2.0”. L’accordo originale, egli rammenta, poggiava su un cinico equilibrio di minaccia militare e promessa di protezione. Oggi, di fronte a un’Arabia Saudita che inizia a regolare scambi energetici in yuan, quel sistema mostra crepe profonde. La strategia odierna abbandona il bastone per offrire esclusivamente la carota: un profluvio di investimenti, garanzie di sicurezza e, soprattutto, una piena cooptazione nella rete tecnologica e digitale statunitense. L’obiettivo è scongiurare un’ulteriore deriva di Riyadh verso l’orbita di Pechino e, così facendo, puntellare un’egemonia monetaria che appare sempre meno scontata. I patti siglati con Qatar (1,2 trilioni), Arabia Saudita (1.042 miliardi) ed Emirati Arabi Uniti (1,6 trilioni) in settori come difesa, AI, logistica e finanza, sono la prova tangibile di questo nuovo patto, dove la tecnologia diventa il principale veicolo di allineamento e asservimento.
Laboratorio mediorientale del Friend-shoring: compatibilità contro sovranità
In ultima analisi, le recenti peregrinazioni diplomatiche non rappresentano una semplice sequela di accordi commerciali bilaterali, ma l’attivazione di un sistema globale strutturato per blocchi antagonistici. Il Medio Oriente si trasforma nel laboratorio offshore dove si sperimenta e si consolida la dottrina del friend-shoring occidentale. Diventa un’area dove la sovranità nazionale sfuma in secondo piano rispetto alla compatibilità sistemica con il polo tecnocratico americano. In questo nuovo ordine, essere “amici” significa essere integrati, interoperabili e, in definitiva, allineati. Mentre l’architettura del petrodollaro scricchiola sotto il peso delle nuove dinamiche multipolari e dell’ascesa dello yuan, Washington tenta un rilancio audace. Un’operazione presentata con un volto più suadente e collaborativo, ma che cela la medesima, immutata logica imperiale, volta a preservare la propria supremazia attraverso un controllo più sofisticato e pervasivo delle arterie vitali dell’economia mondiale.

Per approfondimenti:
- US Friend-Shoring: What and How?
Analisi dettagliata della strategia di friend-shoring statunitense, con focus su come gli Stati Uniti stiano riorganizzando le catene di approvvigionamento verso Paesi alleati, riducendo la dipendenza dalla Cina. Il testo esplora implicazioni geopolitiche e opportunità per le economie in via di sviluppo, collegandosi alle politiche di Trump citate nell’articolo. - Trump’s Gulf tour reshapes Middle East diplomatic map
Reportage di Reuters sull’impatto del tour di Trump in Medio Oriente, con dettagli sugli accordi economici, le tensioni con Israele e la nuova architettura diplomatica sunnita. Fornisce dati specifici sugli investimenti e il ruolo strategico di Arabia Saudita, Qatar ed Emirati. - The Limits of “Friend-Shoring”
Studio del Center for Strategic and International Studies (CSIS) che critica le aspettative eccessive sul friend-shoring, evidenziando contraddizioni nelle relazioni transatlantiche e rischi di frammentazione economica. Utile per bilanciare l’ottimismo ufficiale con una prospettiva realista.